Sedici anni, specie se visti dalla prospettiva del primo giorno, sembrano tanti, ma, come tutti gli anni, tranne quelli dell’adolescenza, passarono velocissimi e presto mi ritrovai alla fine del 1992. Che fare? Prendere sul serio quel vecchio cinese e riorganizzare la mia vita, tenendo conto del suo avvertimento?
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La verità è che uno a cinquantacinque anni ha una gran voglia di aggiungere un pizzico di poesia alla propria vita, di guardare al mondo con occhi nuovi, di rileggere i classici, di riscoprire che il sole sorge, che in cielo c’è la luna e che il tempo non è solo quello scandito dagli orologi.
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Le stazioni invece no, sono vere, sono specchi delle città nel cui cuore sono piantate. Le stazioni stanno vicino alle cattedrali, alle moschee, alle pagode o ai mausolei. Una volta arrivati lì, si è arrivati davvero.
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Il fatto che io avessi preso seriamente la profezia di un indovino cinese significava, per i Thai cui ne parlavo, che mi ero immesso nella loro logica, che avevo accettato la cultura dell’Asia.
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«Ah, potessi andare da quell’indovino a Ulan Bator!» si dice probabilmente un abitante di Giava e così mantiene viva la speranza di un posto dove certamente c’è la chiave della sua felicità.
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Da dove mi veniva allora la mia voglia di mondo, il mio feticismo per la carta stampata, il mio amore per i libri e soprattutto quella ardente bramosia di lasciare Firenze, di viaggiare, di andarmene lontanissimo?
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Davvero i soldi per un quaderno erano una preoccupazione e i primi pantaloni lunghi, nuovi, di velluto, buoni per estate e inverno, indispensabili per presentarmi al ginnasio, furono comprati a rate e ogni mese si andava dal merciaio a portargli il dovuto. Oggi è inconcepibile, eppure il piacere di mettermi quei pantaloni non l’ho più riprovato con nessun vestito, neppure con quelli che a Pechino mi faceva su misura il sarto che era stato di Mao.
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(gli ultimi due lembi di terra cinese ancora in mano straniera, Hong Kong e Macao, torneranno sotto la sovranità di Pechino rispettivamente nel 1997 e nel 1999).
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Una delle prime cose che si notano arrivando in Birmania è che la moneta locale, il kyat, è in biglietti di strano taglio: 45, 75, 90. Ne Win considerava questi numeri, tutti riconducibili al numero tre e ai suoi multipli, di ottimo auspicio, e la Banca Centrale dovette adeguarsi.
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ovvio che la carestia, il sollevamento della destra, la fuga del presidente e l’attentato contro il generale non avvennero perché - come dire? - non dovevano avvenire e non perché furono «evitati» grazie alle profezie. Ma questa non è la logica con cui gli asiatici - specie i birmani - guardano alla vita. La previsione è di per sé creazione.
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Il fatto che io avessi deciso di tener conto dell’avvertimento e di passare un anno senza volare riduceva un po’ la distanza fra le nostre esistenze. Ero anch’io entrato in un ordine di idee tutt’altro che fiorentino.
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«Ricordatelo allora ogni volta che vedi un astrologo: non le otto di sera, ma le sette, le sette e un quarto!»
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«...L’ideale per te è essere sempre in movimento. Se vivi sempre nello stesso posto il tuo cervello smette di funzionare.» (Verissimo, sono al mio meglio quando sono paracadutato da qualche parte di cui non so nulla; la curiosità è la mia migliore molla.)
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«Mai pen rai» è la loro frase più comune. Significa «Non importa», «Pazienza», «Lascia stare», «Perché preoccuparsi?» Il vento ha buttato giù il tetto della casa? Mai pen rai.
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Mi resi conto che questo è esattamente quello che si tende a fare anche con un indovino. Lui dice qualcosa e subito si cerca, in quel che si sa, di trovare il fatto che gli corrisponde.
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Per me quel vecchio rimase l’epitome del cinese della diaspora: sicuro di sé ma poco appariscente, potente ma ritirato e modesto per tema di ingelosire gli dei o i governanti.
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Al massimo mi candiderò alla presidenza del Club dei Corrispondenti Stranieri a Hong Kong! È lì che voglio passare l’estate del 1997 a vedere la fine dell’ultima colonia al mondo.
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Facciamo viaggiare sulle navi chi non sopporta più il peso della vita, chi non vede ragione per tirare avanti, chi si sente soffocare, e risparmieremo quintali di pasticche; faremo a meno del Valium e del Prozac!
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Avevo tempo e silenzio: qualcosa di così necessario, di così naturale, ma ormai diventato un lusso che solo pochissimi riescono a permettersi.
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Dopo anni spesi a pensare al destino dei vietnamiti, dei cambogiani, del comunismo, dei cinesi, alla minaccia del Giappone, al futuro dei figli, ai problemi della famiglia, degli amici e del mondo, finalmente avevo il tempo di avere tempo.
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Tornando in Europa, andai a vedere un famoso medico. « Se, a volte, il peso del mondo le dovesse parere davvero insopportabile, prenda una di queste», disse e mi dette del Prozac. Da allora quella scatolina, mai aperta, ha sempre viaggiato con me, assieme al passaporto, ai libretti degli assegni, alle varie patenti, e con il tempo è diventata una sorta di portafortuna, come l’olio del dukun, o la striscia di carta verde della sciamana di Singapore.
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mi avevano rimesso addosso quell’esilarante senso di libertà che è la mia droga;
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Stavamo con il fiato sospeso e il silenzio era un segno della paura che ognuno si teneva per sé.
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uscii una mattina da Turtle House e partii per un grande viaggio, uno dei più lunghi della mia vita, uno dei più lenti, quello con cui volevo darmi più agio: Bangkok - Firenze.
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I vincitori invece credono di non aver nulla da imparare.
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A suo modo l’indovino di Hong Kong, a distanza di anni, continuava a farmi dei regali. Il successivo furono diciotto lunghi, lenti, riposantissimi giorni di silenzio e di solitudine a bordo di una nave in rotta dall’Europa all’Asia, attraverso i grandi mari della storia: il Mediterraneo, il Mar Rosso, il Golfo Persico, l’Oceano Indiano
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Per anni avevo sognato, nei momenti di depressione, di mettere idealmente sulla porta della mia stanza un cartello che dicesse «Sono fuori a pranzo» e poi di far durare quell’assenza giorni o settimane.
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Ciascuno dovrebbe, ogni tanto, riaffermare questo diritto al silenzio e concedersi una pausa, una pausa di giorni di silenzio, per risentire se stesso, per riflettere e ritrovare un po’ di sanità.
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